Solitudine

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    Nessuno lo capiva, lui stava sempre da solo. Sempre solo perché nessuno si sforzava di fermarsi a osservarlo. Tutti lo lasciavano solo. Pochi secondi di contemplazione, una risatina, certe volte un commento più o meno derisorio. Tutti lo lasciavano solo.


    Passava le giornate chiuso nel grande palazzo buio, illuminato solo da una lampadina in alto, attaccata in alto, al soffitto distante da terra più di dieci metri. La sua sola compagnia era lo specchio opaco che debolmente rifletteva una scura immagine di riflesso. Scura perché la luce era lontana. Neppure lei desiderava stare sola con lui; neppure in compagnia, se per questo. Era solo.


    Il suo unico scopo nella vita era posizionare gli arti anteriori nella forma perfetta: niente doveva risultare fuori posto. Una linea perfetta, una superficie immateriale creata dalla magia della perfezione, della mancanza di errore, dall'estremo che una mente potesse concepire in quel pianeta scuro e triste: doveva farcela. Ci provava da anni, da quando era uscito dall'uovo. Solo ma con uno scopo nella vita. Il suo scopo nella vita. La sua ragione di essere. La sua unica compagnia.


    Da piccolo tutti lo adoravano, tutti lo coccolavano, tutti gli davano bocconcini e crocchette. Era imperfetto ma felice: chiunque lo adorava mentre cercava di imitare le persone, tutti lo aiutavano nel suo intento, posizionando i suoi buffi e paffuti arti rosa come lui voleva. Era diverso da com'era poi, ma era felice. Ma venne il giorno della solitudine, dell'abbandono: capì come imitare le persone e ciò, capendole nel profondo, lo mutò per sempre. Mutato irrimediabilmente, era perfetto, era strano, era il diverso. La gente lo abbandonò.


    Ora stava solo nella sua solitudine a riprovare la posa, sempre la stessa posa, da anni: sapeva che se fosse riuscito a ricreare la realtà che ricercava avrebbe potuto viverla. Sapeva che la gente, quella poca gente che vagabondando finiva in quel vecchio magazzino abbandonato, avrebbe smesso di deriderlo, avrebbe smesso di urlare terrorizzata o abbandonarlo nuovamente. E perché? Perché sarebbe stata rapita dalla perfezione dei due grandi guanti bianchi che magicamente creavano una superficie che non esisteva grazie alla forza della perfezione.


    Ma era imperfetto, lui, il movimento, il mondo, tutto era imperfetto. Per questo sapeva che nessuno lo avrebbe mai accettato fino a quando non avesse capito cosa rendeva tanto speciale quella posa. E ciò lo tormentava, gli riempiva le giornate vuote, gli rendeva le nottate piene di insoddisfazione e prive di sonno. Ormai non pensava ad altro: provare a essere perfetto nella sua mimesi. La sua mente era piena di quelle azioni da provare e riprovare fino alla perfezione. Quasi non pensava ad altro. Quasi non si ricordava nemmeno più chi lo coccolava. Quasi, quasi non si ricordava nemmeno più il suo nome! Il suo brutto, patetico nome. E qual era questo nome?


    Mr Mime.


    Ma non aveva importanza: sapere chi fosse non gli avrebbe ridato qualcuno che lo chiamasse amico.



    Mr Mime, Pokémon di prima generazione, mi ha sempre dato un senso di alienazione per quel suo intento di volere creare una barriera con i suoi guanti bianchi. Ora, unito al senso di solitudine che provai anni fa, ho cercato di rendere il tutto un racconto drammatico ma scorrevole.
     
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